Contro il panico in un Paese paralizzato dall’epidemia di Ebola: la missione di Rainbow For Africa in Sierra Leone (di Renata Gili)
Verso la fine di settembre la mia Professoressa, Direttore della Scuola di Specializzazione di Igiene e Medicina preventiva che sto frequentando, mi propose di partire per una missione breve in Sierra Leone. Sapeva che sono interessata e affascinata dal mondo della cooperazione internazionale, ma non vi nascondo che provai una certa paura, in quel momento, all’idea buttarmi in mezzo all’epidemia di Ebola più grave che ci sia stata fino ad ora. Il lato un po’ incosciente del mio carattere, dopo averci razionalmente pensato qualche giorno, mi fece rispondere “Sì, vado!”. E così, il primo novembre 2014, mi ritrovai su un aereo della Royal Air Maroc. Destinazione: Freetown.
Sono partita, con il Dott. Paolo Narcisi, anestesista-rianimatore del Centro Traumatologico dell’ospedale CTO di Torino e presidente dell’associazione torinese di cooperazione internazionale in ambito sanitario Rainbow for Africa. In Sierra Leone ci ha raggiunti, da Roma, Francesco Farnesi, direttore di Engim Internazionale, ONG per la formazione, lo sviluppo e la cooperazione che opera in Italia, in Europa e nei Paesi in Via di Sviluppo. Durante il mese prima della partenza, il lavoro è stato duro: da un lato, era volto ad acquisire una preparazione adeguata che ci permettesse di assumere i comportamenti corretti e di fronteggiare eventuali pericoli, dall’altro era indirizzato a studiare un protocollo di vestizione e svestizione per l’uso dei dispositivi di protezione individuale (DPI) di alto livello, adatti cioè a lavorare in sala operatoria e ad eseguire un intervento chirurgico.
Una volta atterrati in Sierra Leone, abbiamo lavorato in due città nel nord ovest del Paese: Lunsar, nel distretto di Port Loko, e Makeni, nel distretto di Bombali. In queste due realtà ci siamo proposti di attivare un supporto per il sostegno dei due ospedali St. John of God di Lunsar e Holy Spirit di Makeni, attualmente chiusi per la paura di infettare il personale medico. Punto fondamentale di questo supporto era la formazione del personale locale all’utilizzo dei nuovi DPI, in modo che potessero ricominciare a lavorare in sicurezza a contatto con pazienti sospetti. Inoltre, collaborando con il personale locale, abbiamo impostato dei protocolli di ripresa delle attività con l’istituzione di un triage molto stretto esterno all’ospedale che permettesse di non fare entrare i casi sospetti di Ebola e di mandarli direttamente in una zona di isolamento, per evitare la contaminazione degli ambienti interni e del personale. La zona di isolamento nell’ospedale di Lunsar è un vero e proprio Holding Center finanziato da WHO (struttura per il ricovero dei pazienti sospetti, in attesa di esclusione o accertamento della malattia Ebola), a cui noi stiamo dando supporto inviando materiale protettivo per medici e infermieri. Inoltre, il nostro progetto si propone di instaurare una zona di isolamento anche nell’ospedale di Makeni. In questo modo, passo dopo passo, si arriverà alla riapertura progressiva dei reparti di Maternità, Chirurgia e Traumatologia. Infine, abbiamo iniziato a supportare 60 comunità rurali afferenti agli ospedali di Makeni e Lunsar, molte delle quali lontane dalle città (quelle in cui i casi di Ebola stanno crescendo maggiormente). Ad ognuna forniremo un termometro, un telefono, alcuni DPI e formeremo un abitante del villaggio al riconoscimento di un caso sospetto.
L’Ebola, ad oggi, ha causato il contagio di circa 15000 persone nei tre Paesi maggiormente colpiti: Guinea, Liberia e Sierra Leone. Le morti sono state circa 5500. Se in questi Paesi ci fosse stato un sistema sanitario organizzato, l’epidemia non sarebbe stata di proporzioni così grandi e si sarebbe controllata facilmente. Ma adesso il vero problema, ciò che più mi ha colpito, è stato vedere un Paese paralizzato dal terrore verso un virus che ancora non si sa fronteggiare correttamente e tenere sotto controllo. È la paura del contagio, che provoca più vittime della diffusione della malattia da Virus Ebola. Si percepisce già dall’ingresso all’aeroporto, dove gli addetti ai controlli non ti permettono di entrare senza essersi lavati le mani nell’acqua e candeggina e ti attendono con guanti e mascherina, armati di termometri laser per il controllo della temperatura. Ogni volta che si tocca qualcosa ci si lava le mani con le soluzioni di acqua e alcol, che ormai tutti possiedono. Nessuno si dà la mano, ogni forma di contatto fisico è proibita … e questo è significativo, soprattutto se si è già stati in Africa altre volte: è un popolo abituato al contatto fisico continuo, agli abbracci, alle strette di mano e alle pacche sulla spalla. Addirittura i bambini non toccano nessuno, con i conseguenti traumi dal punto di vista psicologico che si verificheranno nel post-Ebola. Tutto è fermo. Le scuole sono chiuse, i giochi e gli sport sono interrotti. Qualunque possibile fonte di aggregazione è sospesa. Di fronte ad ogni casa e sparsi per le città si trovano secchi pieni di acqua e candeggina per lavarsi le mani.
Il terrore, purtroppo, ha provocato anche la chiusura di molti ospedali. I medici non si proteggono correttamente e rischiano di infettarsi. Questo genera un disastro ancora più grande: non vengono più curate le altre patologie e le morti si accumulano. L’assistenza sanitaria materna è negata, quindi i bambini vengono partoriti in casa con tutte le complicanze che ne derivano (nell’ospedale di Makeni, fino all’agosto scorso, si contavano circa 200 parti al mese). I cesarei non vengono più fatti: nell’ospedale di Makeni, per esempio, c’era una media di 30 cesarei al mese… che fine avranno fatto oggi quelle mamme e quei bambini? Inoltre la malaria, la diarrea, i traumi non vengono più curati. I programmi di vaccinazione infantile sono interrotti.
È terribile vedere alcune statistiche che mostrano come, per esempio nel distretto di Bombali, solo il 40% dei cadaveri morti in questa epidemia siano risultati positivi al test per Ebola … e tutti gli altri? Triste vedere come, se si fosse presa in mano la situazione in tempo dandole la giusta importanza, le risorse da impiegare sarebbero state decisamente inferiori. Potevano essere pochi milioni di dollari sei mesi fa, saranno alcuni miliardi nei prossimi mesi. Gli interventi per il controllo di quest’epidemia, infatti, sono semplici, se si applicano le giuste risorse: formazione e protezione degli operatori sanitari, isolamento dei casi, quarantena per i sospetti contagi e pratiche funerarie sicure e non pubbliche.
Un’altra emergenza è quella alimentare: migliaia di persone in Sierra Leone sono costrette a violare la quarantena per trovare del cibo, potenzialmente contaminando altri individui, in quanto gli aiuti alimentari non sempre riescono a raggiungere tutte le comunità. In particolare in Sierra Leone dovrebbe essere attivo un sistema atto a garantire gli aiuti alimentari per le persone in quarantena ma questo non funziona in modo effettivo e le persone sono costrette a uscire di casa, esponendo altri alla malattia. Come ho già scritto, con il nostro progetto ci siamo proposti di supportare 60 comunità rurali, e vorremmo dare una mano anche in questo senso: attivando un supporto alimentare, tramite l’invio di riso in Sierra Leone, per le comunità in quarantena.
Rainbow for Africa
Rainbow for Africa è un’Associazione senza fini di lucro che opera nell’ambito dello sviluppo e della cooperazione internazionale, nata al CTO di Torino nel 2007 per iniziativa di un gruppo di medici e infermieri e riconosciuta Onlus nel 2009. È costituita da medici (specialisti in varie discipline), infermieri, altre figure sanitarie, ingegneri ed esperti informatici, che mettono a disposizione la loro professionalità ed esperienza. Si è rapidamente espansa ed ora ha volontari in diverse regioni d’Italia.
L’Associazione vuole contribuire allo sviluppo sostenibile dell’Africa intervenendo nel settore sanitario al fine di accrescerne la qualità, la specificità e l’accessibilità. In Italia è impegnata nella promozione dell’educazione alla cooperazione e nell’integrazione degli immigrati nel tessuto sociale del Paese ospitante. In Africa l’impegno maggiore consiste nella formazione generale e specifica del personale sanitario locale, curando parallelamente la valorizzazione e l’incremento di attrezzature, infrastrutture e strumenti telematici presenti in loco.
Rainbow For Africa è intervenuta durante il terremoto ad Haiti, ha missioni in Etiopia, Burkina Faso, Senegal e Sierra Leone. Ha il supporto delle Università di Torino, Novara e Roma TorVergata.
Ulteriori info: http://www.rainbow4africa.org